Le cause ostative impediscono l’applicazione del regime forfettario nell’anno in si verificano. Ma se una di queste cause si manifesta mentre il contribuente opera già nel forfait, l’uscita dal regime decorre dall’anno successivo. Occorre risolvere un complicato puzzle per mettere insieme le disposizioni di legge, l’interpretazione delle Entrate con la circolare 10/E/2016 e le risposte dell’Agenzia a Telefisco 2019. …
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Una delle novità più rilevanti introdotte dal nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (articoli 12 – 15) è la cosiddetta “procedura di allerta”, che è volta a consentire un’emersione precoce denicllla crisi d’impresa al fine di evitare la progressiva dispersione del patrimonio aziendale e in modo da soddisfare al meglio la massa dei creditori.
Le misure di allerta sono state introdotte dal legislatore per far sì che le imprese adottino, con l’ausilio degli organi di controllo, in maniera del tutto autonoma e prima di ricorrere ad una qualsiasi delle procedure concorsuali previste, e, soprattutto, senza coinvolgere i creditori, le misure occorrenti per rimuovere le cause della crisi mediante una riorganizzazione dell’attività aziendale.
Qualora la soluzione della crisi non appaia attuabile con misure di ristrutturazione aziendale interna, è possibile far ricorso all’istituto della composizione assistita della crisi (articoli 19 e segg.), per il tramite dell’Organismo di composizione della crisi, istituito presso la Camera di Commercio, che, mediante una trattativa con i creditori, nel termine di tre mesi, prorogabili per ulteriori tre mesi, cerchi una soluzione concordata stragiudiziale con i creditori.
Alla base di questo “sistema di allerta” è stato previsto un obbligo di segnalazione sia da parte degli organi di controllo interno societario sia da parte dei creditori pubblici qualificati individuati nell’Agenzia delle Entrate, nell’Istituto della previdenza sociale e nell’agente della riscossione delle imposte.
L’articolo 14 del codice della crisi impone agli organi di controllo societari il duplice obbligo di verificare che l’organo amministrativo monitori costantemente l’adeguatezza dell’assetto organizzativo dell’impresa, il suo equilibrio economico finanziario e il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’eventuale esistenza di fondati indizi della crisi.
A tal proposito si ricorda che la nuova formulazione dell’articolo 2086 cod. civ., così come modificato dall’articolo 375 del codice della crisi e dell’insolvenza, impone all’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva, l’istituzione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative al fine di salvaguardare il patrimonio e la continuità aziendale.
L’organo di controllo interno è obbligato a instaurare una sorta di dialogo con l’organo amministrativo diretto ad individuare le soluzioni possibili e le iniziative da intraprendere, in difetto delle quali gli organi di controllo sono tenuti ad attivare la procedura dconii allerta «esterna» mediante sollecita ed idonea segnalazione all’organismo di composizione della crisi d’impresa, corredata da tutte le informazioni necessarie, anche in deroga all’obbligo di segretezza prescritto dall’articolo 2407, comma 1, cod. civ..
La segnalazione tempestiva, da parte dell’organo di controllo all’organismo di composizione della crisi, ai sensi del comma 3 dell’articolo 14 dello schema di decreto, comporta l’esonero dalla responsabilità solidale degli organi di controllo societari per le conseguenze pregiudizievoli delle omissioni o delle azioni successivamente poste in essere dall’organo amministrativo, in difformità dalla prescrizioni ricevute, a meno che esse siano diretta conseguenza di decisioni assunte prima della segnalazione medesima; il tutto, ferma restando la prosecuzione dell’esercizio delle funzioni proprie degli organi di controllo, in modo da consentire loro di adempiere in assoluta autonomia alle proprie funzioni.
Non vi è chi non veda nella norma appena citata una disposizione foriera di guai per l’organo di controllo, soprattutto in tema di controllo dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo aziendale. Infatti, già non risulta agevole individuare i canoni di un assetto organizzativo “adeguato” per un’azienda; se a ciò aggiungiamo che l’esonero da responsabilità si ha soltanto in caso di segnalazione tempestiva, in tutti gli altri casi i componenti dell’organi di controllo risulteranno esposti a pesanti conseguenze. Il rischio è quello di un proliferare di segnalazioni “prudenziali” che svilirebbero, di fatto, la valenza delle stesse.
Al fine di istituire una perfetta sintonia tra organo amministrativo e organo di controllo il legislatore ha inoltre imposto agli istituti di credito ed agli altri intermediari finanziari di cui all’articolo 106 Tub di dare notizia anche agli organi di controllo societari, se esistenti, delle variazioni, revisioni e revoche degli affidamenti comunicate al cliente.
Stesso obbligo di segnalazione di allerta spetta ai creditori pubblici qualificati quali Agenzia delle Entrate, INPS e Agente della riscossione qualora si trovino di fronte ad un’esposizione debitoria dell’imprenditore di importo rilevante.
Per quanto riguarda l’obbligo di segnalazione, con riguardo all’Agenzia delle Entrate, il legislatore ha ritenuto opportuno monitorare il solo debito Iva, facendo riferimento ai debiti iva scaduti e non versati pari ad almeno il 30% dei volumi di affari del periodo a cui si riferisce l’ultima liquidazione.
Relativamente all’Inps si è fatto riferimento ad un ritardo di oltre sei mesi nel versamento di contributi previdenziali di ammontare superiore alla metà di quelli dovuti nell’anno precedente, in ogni caso superiore ad euro 50.000; importo, quest’ultimo, ritenuto congruo dagli stessi esponenti dell’istituto consultati nel corso delle audizioni, i quali hanno evidenziato come una soglia più bassa porterebbe il numero dei soggetti da sottoporre alle procedure d’allerta a quasi 200.000 all’anno (contro i 12.000 circa potenzialmente interessati adottando la soglia dei 50.000 euro), numero difficilmente gestibile, soprattutto in fase di prima applicazione della norma.
Con riguardo all’agente della riscossione (articolo 15, comma 2, lett. c), tenuto conto dei compiti ad esso affidati e dei tempi necessari per la sua attivazione, l’inadempimento viene ritenuto rilevante quando la sommatoria dei crediti affidati per la riscossione dopo la data di entrata in vigore del codice, limitatamente ai crediti autodichiarati o definitivamente accertati (come espressamente previsto dalla legge delega) e scaduti da oltre novanta giorni superi, per le imprese individuali, la soglia di euro 500.000 e, per le imprese collettive, la soglia di euro 1.000.000. Importi meno elevati, come dimostrato dalle elaborazioni effettuate da Agenzia Entrate-Riscossione, porterebbe la platea dei possibili soggetti interessati alla segnalazione ad un numero superiore ai ventimila, contro un totale di circa 2.000 stimabili sulla base delle soglie recepite dalla norma.
Va rimarcato che, proprio in ragione della assoluta novità dell’istituto dell’allerta ed al fine di monitorarne l’efficacia fin dalle sue prime applicazioni, è previsto un meccanismo di adeguamento delle disposizioni contenute nell’articolo 15, con riferimento sia alla tipologia dei debiti monitorati, sia alla loro entità, dapprima entro due anni dalla entrata in vigore del codice, e successivamente ogni tre anni.
Detto adeguamento avverrà anche sulla base dei dati elaborati da un Osservatorio permanente istituito con il compito, tra l’altro, di monitorare con cadenza annuale l’andamento delle misure di allerta e di proporre le eventuali modifiche normative necessarie a migliorarne l’efficienza.
La sanzione per la mancata ottemperanza all’obbligo di segnalazione consiste, per l’Agenzia delle entrate e l’Istituto nazionale della previdenza sociale, nell’inefficacia del titolo di prelazione spettante ai crediti dei quali essi sono titolari, e per l’agente della riscossione delle imposte, nell’inopponibilità alla massa del credito per spese ed oneri di riscossione.
L’obiettivo del legislatore è stato quindi quello di una precoce rilevazione della crisi dell’impresa, in vista della tempestiva adozione delle misure idonee a superarla o regolarla attraverso una sorta di collaborazione tra organo amministrativo e organo di controllo, e comunque prima di attivare l’istituto della composizione assistita della crisi con il coinvolgimento dei creditori nel presupposto che sia imprescindibile una ristrutturazione del debito.
La verifica della riconducibilità dell’attività svolta dalla società partecipata a quella esercita dal contribuente forfettario deve essere eseguita in base al dato effettivo e non al codice Ateco relativo alle attività stesse.
È quanto emerso da una risposta ad interrogazione parlamentare in cui il MEF ha fornito due nuovi chiarimenti al fine di comprendere meglio la portata delle due novità, introdotte dalla Legge di Bilancio 2019, secondo cui costituiscono cause di preclusione all’adozione del regime forfettario:
– le partecipazioni di controllo in società a responsabilità limitata che svolgono attività direttamente o indirettamente riconducibili a quella esercita dal contribuente forfettario (articolo 1, comma 57, lett. d), L. 190/2014, come modificato dall’articolo 1, comma 9, lett. c), L. 145/2018);
– l’esercizio prevalente dell’attività nei confronti del datore di lavoro o dell’ex datore di lavoro nei due anni precedenti, ovvero nei confronti di soggetti a loro direttamente o indirettamente riconducibili (nuova lett. d-bis), dell’articolo 1, comma 57, L. 190/2014, come modificato dalla L. 145/2018).
In relazione al primo aspetto, l’interrogazione parlamentare riguarda un soggetto che esercita l’attività contraddistinta dal codice Ateco 749099 (altre attività professionali) e che nel contempo detiene una partecipazione di controllo (pari al 90%) in una società immobiliare esercente l’attività di intermediazione nella mediazione immobiliare (codice Ateco 683100).
Secondo il MEF, la ratio della causa di preclusione in esame è quella di “evitare artificiose frammentazioni delle attività d’impresa o di lavoro autonomo svolte al solo scopo di beneficiare di una tassazione più favorevole“.
Pertanto, si deve aver riguardo all’attività effettivamente svolta e non ai codici Ateco utilizzati per lo svolgimento delle due attività, con la conseguenza che pur in presenza di due codici Ateco distinti il contribuente potrebbe esercitare di fatto un’attività collegata a quella effettivamente svolta dalla società a responsabilità limitata di cui detiene il controllo.
L’analisi deve avvenire quindi caso per caso, e non è stata fornita risposta in merito alla situazione prospettata poiché non è stata specificata l’attività svolta dal soggetto con la propria partita Iva individuale.
Ad esempio, laddove l’attività svolta sia quella di consulente nel campo immobiliare, è del tutto evidente che la partecipazione di controllo nella società di intermediazione immobiliare è riconducibile a quella svolta in forma individuale, con conseguente preclusione all’accesso al regime forfettario.
Il secondo chiarimento fornito riguarda l’altra causa di preclusione riferita alla prevalenza dell’attività svolta dal contribuente forfettario nei confronti del datore di lavoro o dell’ex datore di lavoro nei due anni precedenti, e si riferisce ad una nuova partita Iva aperta a seguito dell’iscrizione ad un ordine o collegio professionale.
Secondo quanto si legge nella risposta, la ratio della nuova causa di preclusione è di evitare l’avvio di iniziative professionali (o d’impresa) al solo scopo di beneficiare della tassazione di favore, trasformando l’attività di lavoro dipendente o a questo assimilata, in attività di lavoro autonomo.
In assenza di tale obiettivo, precisa il MEF, non vi sono ostacoli per l’accesso al regime agevolato.
La risposta lascia intendere che, laddove il professionista abilitato sia stato in precedenza dipendente dello Studio cui ora svolge l’attività con partita Iva, il regime forfettario è precluso, mentre non dovrebbero esservi problemi qualora il precedente rapporto di tirocinio sia stato svolto in forma diversa.
Sul punto, tuttavia, la risposta lascia una sorta di “porta” aperta, poiché si fa riferimento anche a precedenti attività svolte in forma assimilata a quella di lavoro dipendente, con conseguente possibile allargamento della nozione di datore di lavoro.
La questione è delicata e merita ulteriori chiarimenti, poiché se così fosse rientrerebbero nella causa preclusiva anche tutte le forme di collaborazione che ai fini fiscali rientrano tra i redditi assimilati al lavoro dipendente, ma che ai fini giuridici non lo sono.
Per i contribuenti interessati al regime forfettario – nella sua nuova “veste” risultante dalle modifiche operate dalla legge 145/2018 – è di estrema attualità la verifica circa eventuali ostacoli che il sistema pone alla provenienza da altri regimi applicati negli anni precedenti. La situazione (descritta dalla tabella pubblicata in pagina) è abbastanza variegata; ma, all’atto pratico, se il contribuente ha i requisiti di accesso previsti, il passaggio dovrebbe essere possibile. Vediamo perché, in attesa delle risposte che arriveranno da …